Nel periodo di evoluzioni e rivoluzioni che stiamo attraversando è naturale si chiedano riforme anche per i RR. Conservatori di Musica. È opportuno però che di esse scrivano e discutano quegli artisti che, per la qualità d’insegnanti, ne hanno la maggior attitudine, la maggior preparazione e il maggior diritto.

Gli artisti insegnanti nei Conservatorî, se hanno in ogni tempo coltivato e immaginato riforme a vantaggio degli Istituti e dell’arte in genere, raramente se ne son fatti gli apostoli, raramente han voluto almeno addentrarsi nei dibattiti di necessarie discussioni per trionfo di qualche loro vagheggiata riforma.

È da notarsi quindi con compiacimento lo scritto del maestro Orefice: Conservatorio od Università Musicale?, pubblicato nell’ultimo numero della «Rivista Musicale Italiana».

Animato da fervido entusiasmo per la mia arte e per la scuola in genere, io sento il dovere di discutere un concetto che, se accettato come l’egregio collega M° Orefice l’enuncia, pregiudicherebbe il carattere e la funzione dei Conservatorî senza creare, con l’Università Musicale, nella forma da lui proposta, di che sostituirli vantaggiosamente. […]

L’egregio collega M° Orefice dice, in sostanza, che le scuole di composizione, come sono attualmente organizzate, non rispondono allo scopo, perché in esse i giovani hanno solo il dovere e l’opportunità di imparare le regole dell’armonia e del contrappunto, secondo formularî (leggi trattati) diversi: tutti buoni se considerati come sintesi di un periodo storico musicale: tutti inutili invece inquantoché, valendosi di qualunque di essi, l’allievo si forma dell’Arte un concetto relativo e subordinato al concetto dell’autore la cui opera gli serve di testo.

Tutto questo è perfettamente vero: senonché non si potrebbe sperare d’ovviare a tale inconveniente pur abolendo i trattati (cosa che del resto Orefice non propone affatto) poiché ciascun insegnante comunicando all’allievo le proprie idee, circa la composizione, circa l’esecuzione, gli rivela un’arte attraverso il suo proprio temperamento. […[

Ciò che, me lo consenta l’egregio collega, non si può accettare della sua proposta, è il concetto emanante dal suo scritto che i Conservatori debbano mettere tutte le scuole al servizio di quella di Composizione.

Che cosa significa infatti il chiedere che i Conservatori si trasformino in scuole di coltura musicale pura e semplice, pur continuando le singole specialità ad esplicare la propria azione subordinatamente al criterio della coltura generale? […]

Io chiedo come sarebbe possibile insegnare la musica a chi, volendo ad esempio diventare pianista, non conoscesse tutte le risorse dinamiche inerenti al suo strumento. Mi chiedo inoltre se per giungere a eseguire veramente bene una sonata di Beethoven o di Liszt sia sufficiente imparare a suonare quel pezzo senz’altro sussidio di preparazione tecnica e di coltura pianistico-musicale.

Il M° Orefice afferma che «neppure quelle che dovrebbero esserlo essenzialmente: le scuole di composizione, sono scuole di coltura». Questo è vero! Ma ciò dipende appunto dal fatto che i compositori non avendo l’obbligo di addestrarsi nell’arte della esecuzione, non possono formarsi quella coltura che gli altri acquistano automaticamente eseguendo le più importanti opere strumentali.

L’insegnamento musicale nei conservatorî si può dividere in tre categorie nettamente distinte: quella riguardante gli strumenti d’orchestra, quella che comprende gli strumenti da concerto e quella di composizione.

L’innovazione del collega Orefice, andando fatalmente a detrimento, sia pur parziale, dell’insegnamento tecnico, non gioverebbe alla prima categoria. Un suonatore di tromba, in orchestra, deve essere prima di tutto e sopra tutt’un eccellente suonatore, senza opinione personale in fatto d’arte, per poter più facilmente plasmare la propria esecuzione alla volontà del direttore il quale si troverebbe in ben curioso impiccio qualora dovesse lottare contro la personalità artistica dei suoi 60 o 120 esecutori, i quali, naturalmente, potrebbero non pensare né sentire tutti all’istesso modo.

Per la seconda categoria in generale non si può lamentare grande deficienza di coltura. Nei limiti del tempo dedicato allo studio degli strumenti da concerto, ogni giovane ne assimila in misura notevolissima, e questa, pur potendo essere ampliata e migliorata, non si può dir coltura deficiente. L’istruzione in ogni Conservatorio di una scuola per la musica d’insieme, potrebbe completare la coltura dei giovani studenti di strumenti da concerto, come l’obbligo delle esercitazioni orchestrali: là dove non esistono gioverebbe al miglioramento degli studenti di strumenti d’orchestra e degli allievi compositori. Ma a parte questa lacuna, facilmente colmabile, purché lo si voglia, si può con tranquilla coscienza affermare, che le condizioni generali artistiche delle scuole di strumenti da concerto rispondono in massima allo scopo di mettere ciascun allievo, se ha talento, nelle condizioni di poter fare da sé.

Il M° Orefice, da vero innamorato della propria idea, fa astrazione dalla somma d’intelligenza, di attività e di tempo che occorre per raggiungere tale scopo ed afferma, senz’altro, «essere sufficienti uno o due anni al massimo per divenire virtuosi». […]

Ma quando l’ affermazione che il virtuosismo si può ottenere in uno o due anni e che non occorre essere virtuosi per essere esecutori viene da persona autorevole come il M° Orefice, l’opinione pubblica può esserne perniciosamente influenzata: e contro ciò è necessario mettere in guardia gli ignari. Ho fiducia però che l’eminente collega, esecutore valente egli stesso, s’induca a ritornare sull’argomento per chiarire il suo concetto.

L’arte dell’esecuzione diventa ogni giorno più difficile e richiede quindi sempre maggiore applicazione. Si pensi alla sua importanza per lo sviluppo e la diffusione della coltura, per la comprensione e l’apprezzamento delle opere d’arte, e si avrà ragione di trepidare di fronte al possibile diffondersi di talune idee. La lamentata ignoranza degli allievi compositori non è forse connessa alla loro deficienza di mezzi d’esecuzione? Se essi sapessero suonar bene il pianoforte o l’organo, sarebbe superfluo chiedere che gli studenti d’organo e di pianoforte fossero devoluti ad uso e consumo della scuola di composizione.

È indiscutibile che i compositori più colti sono appunto quelli che, oltre ad avere studiato le discipline dell’armonia e del contrappunto, si sono dedicati anche non profondamente ad uno strumento a tastiera.

Dunque: invece di pretendere che i giovani studenti di pianoforte, d’organo, ecc., sieno a disposizione ed a servizio dei futuri compositori, cominciamo a chiedere che un alunno, perché possa aspirare ad essere ammesso alla scuola di composizione, debba essere inscritto in una scuola di strumento da concerto.

(continua)

 

ATTILIO BRUGNOLI, Per una Università musicale, in «La critica musicale», II, 1919, pp. 25-32

 

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