La condizione femminilenella musica colta contemporanea
Confesso che scrivere questo articolo è difficile. Tutte le volte che parlo dell’argomento sintetizzato dal titolo, i colleghi e le colleghe di Conservatorio hanno reazioni imbarazzanti, che vanno dall’accesso di furore di alcuni – di solito uomini – all’ironia di altri che tagliano corto, squittendo: «Tutte idiozie!»; dalla sospettosa incredulità alla bonarietà indulgente delle donne. Molte delle colleghe, e alcuni colleghi, aggiungono solitamente frasi di contenuto riferibile a quello che potremmo chiamare “complesso del Panda”. Che consiste nel vergognarsi o biasimare d’essere considerate specie protetta e nell’affermare orgogliosamente che tutti i meriti e le soddisfazioni professionali che conseguiamo giammai possano dipendere da caratteristiche personali insulse (?) come l’esser donne.
Diononvoglia…
(Breve digressione – tutto pur di rimandare – se si considera che una certa formazione, i libri per studiare e un buono strumento su cui esercitarsi dipendono per esempio: a) dall’essere nato/a in un Paese “avanzato” b) dall’essere stati accolti/e da un ambiente familiare minimamente propenso alla cultura; c) dall’aver incontrato, magari per caso, persone disposte a sostenere i nostri sforzi, ecc., l’idea dei nostri meriti personali si fa piuttosto fuzzy.)
Tutti e tutte desideriamo essere rispettati/e, forse persino benvoluti/e, e possibilmente non incorrere nell’acredine e nella stizza di coloro che lavorano con noi. Dunque, pubblicare su un sito che raccoglie molte migliaia di docenti di musica questo intervento non solo è un grande sforzo, ma è in qualche modo il mio Rubicone.
Alea iact…
Nella Missa in cena domini di quest’anno – atto d’alto valore umano – papa Francesco ha lavato i piedi a una piccola rappresentanza di migranti, includendo quattro donne su dodici partecipanti. Il loro numero tradizionalmente si riferisce a quello degli apostoli di Cristo che, come si sa, erano tutti uomini, proprio come sacerdoti e vescovi della Chiesa cattolica romana. In questo contesto la presenza femminile (tre donne migranti e un’operatrice del centro di accoglienza) ha un valore educativo e simbolico. Indica una sensibilità. Ora, il valore emblematico della rappresentazione della donna nelle manifestazioni di alta cultura è ancora più grande: la cultura, nelle sue forme più alte, costruisce la società, la ispira, le indica il progresso o, almeno, scelte di consapevolezza. Un’analisi della presenza femminile nel contesto delle manifestazioni musicali riveste quindi un significato particolare e richiede un’attenta riflessione. Ma implica anche considerazioni concrete, di giustizia e di equità nella gestione dei finanziamenti alla cultura in ottica di genere. In soldoni… ecco appunto, si tratta di soldi, anche. Di remunerazione materiale, che sostiene la nostra esistenza, e di compensi immateriali, che ci nutrono del necessario riconoscimento professionale.
Oggi accade di rado che un organo di amministrazione pubblica sia composto da soli uomini e nelle leggi elettorali si tiene conto del sesso della rappresentanza politica. Parlando di lavoro, si considerano preoccupanti le discriminazioni dovute al gender pay gap, alla marginalizzazione e ai meccanismi di segregazione (verticale e orizzontale) nelle professioni femminili, agli squilibri nel Work – life balance. Ma quando si tratta del denaro pubblico destinato alla promozione della cultura, che dovrebbe dare riconoscimento alle professionalità e ai talenti artistici e musicali di uomini e donne in modo paritario, il discorso cambia. Si dimentica che il lavoro artistico è pur sempre lavoro, e che necessita di misure di tutela e riequilibrio.
Quante sono le donne che dirigono Enti lirici e Fondazioni? Quante siedono ai tavoli in cui si prendono decisioni sulle politiche culturali? Quante artiste sono presenti nelle stagioni di concerto del Paese? Quante compositrici sono eseguite nelle rassegne di musica contemporanea? Quante insegnanti raggiungono i vertici della propria professione e ricevono i relativi riconoscimenti? Quante masterclass sono tenute da artiste di chiara fama? Quante sono le orchestrali e le direttore d’orchestra? (Chiedo scusa ai molti puristi della grammatica italiana che allignano fra le/gli insegnanti, questa è proprio la parola che scelgo e prediligo). Quante musiciste sono chiamate a far parte di giurie di concorso? E via di seguito… i lettori e le lettrici sono in grado di appurarlo personalmente: è semplice, occorre solo pensarci, almeno qualche volta.
Domande impertinenti: i ruoli spettano a chi li merita. D’accordo, con qualche concessione al compromesso, al venire a patti con la sfera della politique politicienne… come faremmo, se no? Torniamo all’investitura di sua Maestà? Senz’altro, con tutti i suoi difetti, e la pur deprecabile corruzione dell’animo umano, il sistema è complessivamente meritocratico. E, come detto, nessuna donna, solista o compositrice, accetterebbe di essere inserita in una stagione di concerti solo perché donna. Lo aborrirebbe, e avrebbe di certo ragione.
Concesso.
Ma di strumentiste di talento e di compositrici raffinate – mi spiace per chi, in fondo in fondo, non ci crede – il mondo è veramente pieno! Eppure è facile verificare che le scelte culturali, organizzative e gestionali, che ricadono nella sfera decisionale della politica, non tengano conto in alcun modo del criterio di un’equa rappresentanza delle artiste nel mondo musicale.
Se si escludono dal computo le prime parti vocali assegnate a voci femminili o maschili per indicazione del compositore o della compositrice, che non sono soggette a scelta di genere, ci si accorge facilmente che se sei donna e canti hai maggiori probabilità di comparire con un ruolo di primo piano, cioè con il tuo nome sulle locandine, in opere e concerti. In questo senso nella storia degli ultimi tre secoli è cambiato poco. In Italia e all’estero, attrice, cantante o ballerina, sono i ruoli più riconosciuti alle donne nelle performing arts. Proprio come in televisione! Per tutte le altre la condizione di sottorappresentazione è la norma: rispetto al novero totale dei cartelloni, la presenza femminile è molto al di sotto sia della parità sia della ragionevole proporzione. Problema tanto diffuso, da essere, paradossalmente, invisibile.
Fin qui le considerazioni riguardanti la sfera professionale di coloro che hanno scelto la musica come progetto esistenziale e attività lavorativa. Ma quale impatto ha la presente situazione sui nostri allievi e allieve? Se esaminiamo la distribuzione per genere degli iscritti e delle iscritte ai Diplomi di primo livello dei nostri Conservatori, in base ai dati forniti dal MIUR per l’anno accademico 2015 – 2016, saltano agli occhi disparità macroscopiche. Non stupisce che gli studenti di contrabbasso siano 77 e le studenti 10, mentre per l’arpa il rapporto si capovolga con 72 allieve su un totale di 77. Ma tanta rigidità dovrebbe davvero lasciarci indifferenti? Se per il pianoforte le iscritte sono ben più della metà, nella musica elettronica le studenti sono soltanto 54 su 777 (circa il 7%). Alcune materie, poi, sono cruciali per la comprensione di questo fenomeno, indubbiamente di origine storica e sociale molto ampia, che pure attraversa le aule dei nostri Conservatori, senza che apparentemente nessuno/a faccia un plissé: la Direzione d’orchestra vede, per l’anno in corso, un totale di 132 studenti, sul quale le donne sono soltanto 19. Per la Composizione su un totale di 270 solo 38 sono donne. In entrambi i casi soltanto il 14%. Se si considera che le ingegnere italiane, ancora troppo poche, sono una ogni quattro (fonte Il sole 24 ore, Micaela Cappellini, 8 marzo 2016), si comprende la dimensione del problema, e la sua rilevanza nel futuro della musica.
Facciamo spallucce?
Lo stereotipo che vede la Direzione, la Composizione e le prassi tecnologiche più avanzate appannaggio privilegiato del sesso maschile dev’essere finalmente valicato. Determinante è il meccanismo del role model, ampiamente studiato in sociologia, cioè la rappresentazione delle donne nelle manifestazioni musicali in ruoli professionali più ampiamente diversificati. Si torna così al rilievo strategico di una presenza femminile qualificata nelle stagioni, che dovrebbe essere finalmente messa a tema a beneficio dell’avanzamento della società intera.
Cosa propongo?
Le quote di genere (per favore, non quote rosa), sì: negli Enti lirici, nei Teatri, nelle Fondazioni e nelle istituzioni di Alta Formazione Artistica e Musicale su modello dell’intervento, temporaneo, ma dotato d’importante spinta propulsiva della Legge Golfo-Mosca n. 120/2011. Le quote sono uno strumento importante, necessario negli enti culturali ancor più che nelle società per azioni, che producono e danno lavoro, ma non informano i valori civili di una comunità nazionale.
Fra le cosiddette azioni positive – intraprese da tutte le parti in causa, a iniziare dallo Stato, con Regioni ed enti locali, fino alle piccole associazioni culturali – la presentazione di programmi diversificati, che promuovano plurimi, e meno stereotipati, ruoli femminili e favoriscano una maggiore presenza di artiste, compositrici e direttore d’orchestra in tutte le stagioni di concerto e nei teatri. Inoltre l’inserimento nei programmi di studio e d’esame dei Conservatori della musica delle compositrici del passato e del presente, che incentivi anche alla (ri)scoperta delle tante autrici del repertorio storico e contemporaneo da studiare, eseguire e valorizzare.
È anzitutto questione di modelli che rinnovino la società e riequilibrino le ancor evidenti disparità fra uomini e donne sul piano culturale, ma ciò potrà avere effetti graduali e duraturi anche su una più equa distribuzione dei finanziamenti alla cultura in ottica di genere. Una diversa sensibilità su questi temi è innovazione e proiezione nel futuro.
Loredana Metta
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